L’umanità un tempo si comprendeva come parte di qualcosa di vasto e misterioso: il cosmo, la terra, il divino, il ritmo eterno della vita. Ogni cultura aveva il suo modo di esprimere la stessa cosa: il significato non risiede nel possesso, ma nella partecipazione; non nell’accumulo, ma nella connessione.
Tuttavia, negli ultimi secoli, in particolare con l’ascesa del capitalismo e della modernità industriale, questa bussola si è capovolta. Là dove il sacro un tempo orientava la vita umana, il sé ha preso il trono. La vecchia ricerca della trascendenza – andare oltre l’ego – è stata sostituita dall’incessante inseguimento della gratificazione dell’ego.
Nel vuoto lasciato dalla morte del mito, il consumismo è diventato la nuova religione, e il mercato il suo tempio. L’umanità ha scambiato la liberazione interiore con l’abbondanza materiale e, così facendo, si è trovata stranamente vuota.
Molto prima dell’ascesa delle economie moderne, le società indigene e antiche vivevano secondo cosmologie che dissolvevano il confine tra il sé e il mondo. In queste culture, la vita non era un possesso, ma una relazione, un intreccio di legami reciproci con la terra, gli animali e l’invisibile.
Tra molte nazioni indigene americane, il mondo era inteso come una rete interconnessa – il “Grande Cerchio” o “Cerchio Sacro” – dove gli esseri umani erano parenti di animali, piante, fiumi e stelle. La frase Lakota Mitákuye Oyás’iŋ – “Tutti i miei parenti” – esprime una metafisica dell’interessere secoli prima che la scienza ecologica la riecheggiasse.
Il sé, in questa visione del mondo, non è una coscienza isolata, ma un nodo in una rete vivente. L’identità di una persona è relazionale – plasmata dalla comunità, dagli antenati e dal paesaggio stesso. Agire senza riverenza per il tutto significa ferire sé stessi. La maturità spirituale, quindi, significava dissolvere l’illusione della separazione, vivendo con umiltà tra il mondo più-che-umano.
Rituali, offerte e cerimonie stagionali non erano mera superstizione, ma atti di equilibrio – riconoscimenti che la vita scorre in cerchi, che il dare sostiene il ricevere. Il cacciatore ringraziava lo spirito del cervo; l’agricoltore pregava per la pioggia; il narratore invocava gli antenati. Tutta la vita partecipava a uno scambio sacro.
Nell’antico Egitto, in India, in Grecia e in Mesoamerica emergono temi simili. L’universo non era materia inerte, ma animato – vivificato da un’intelligenza divina. Il concetto egizio di Ma’at (verità, equilibrio, ordine cosmico) e il kosmos greco indicano entrambi una totalità armoniosa in cui ogni essere ha il suo posto.
Il ruolo dell’umanità non era dominare la natura, ma rifletterne l’armonia. I templi erano costruiti come repliche simboliche del cosmo, e i sacerdozi fungevano da mediatori tra i mondi. Quando l’umanità dimenticava il suo ruolo cosmico – quando l’ego e l’avidità sconvolgevano Ma’at – seguiva il disordine: carestie, guerre, degrado morale.
Nell’antica Cina, il Taoismo portava queste intuizioni a una raffinatezza filosofica. Il Tao Te Ching insegna che la Via (Tao) è la fonte e il ritmo di tutta l’esistenza. Il saggio dissolve l’ego attraverso il wu wei – azione senza sforzo – permettendo alla vita di vivere sé stessa attraverso di loro.
“Il bene supremo è come l’acqua,” scrisse Laozi, “che beneficia tutte le cose e non compete.” Vivere contro il Tao – sforzandosi, forzando, dominando – significa soffrire. Ritornare al Tao significa diventare trasparenti, come l’acqua che scorre giù per una collina, plasmata ma non spezzata.
Anche qui, la dissoluzione dell’ego non è annientamento, ma allineamento – la riscoperta che la corrente personale è inseparabile dal fiume cosmico.
Attraverso queste diverse tradizioni – indigene, egizie, taoiste – brilla la stessa intuizione: che il significato, la sanità mentale e la sopravvivenza dipendono dal ricordare che apparteniamo al tutto. Il sé è un’espressione temporanea di qualcosa di immensamente più grande, una scintilla nel grande fuoco.
Dimenticare questo è il peccato originale – la caduta nella separazione. Ricordarlo è la salvezza, molto prima che la parola significasse credo.
Man mano che le filosofie dell’umanità si evolvevano e sorgevano religioni formali, lo stesso filo mistico continuava ad apparire, sebbene espresso in nuovi linguaggi e forme mitiche.
Nel Buddismo, l’insegnamento dell’anattā – “non-sé” – smantella l’illusione di un “io” duraturo e indipendente. Ciò che consideriamo il sé è un flusso di sensazioni, percezioni, pensieri e coscienza. La liberazione sorge quando questa illusione si dissolve. La fine dell’attaccamento è il nirvāṇa, lo spegnimento dei fuochi dell’ego di desiderio, avversione e ignoranza.
Il praticante buddista si addestra nella consapevolezza e nella compassione proprio per allentare i confini del sé. Quando vediamo che i nostri pensieri ed emozioni sono transitori, non ci identifichiamo più con essi. Ciò che rimane è la consapevolezza stessa – luminosa, senza centro, libera.
Il Buddha non ci ha insegnato come essere sé migliori; ci ha insegnato come essere liberi dal sé.
Nella filosofia induista, in particolare nell’Advaita Vedānta, l’ego è un velo di ignoranza (avidyā). Sotto di esso si trova l’Ātman, il vero Sé, che non è personale ma identico al Brahman – il fondamento infinito dell’essere.
La famosa frase upanishadica Tat Tvam Asi – “Tu sei Quello” – dichiara che l’essenza dell’individuo è la stessa dell’essenza del cosmo. Il cammino verso la liberazione (moksha) non è quindi la perfezione dell’individualità, ma la sua trascendenza.
Quando l’onda si rende conto di essere acqua, l’oceano dell’essere si rivela. L’ego non si dissolve nel nulla, ma nell’infinito.
Nell’Islam, la verità ultima è il tawḥīd – l’unità di tutta l’esistenza nell’unicità di Dio. I mistici dell’Islam, i Sufi, trasformarono questa dottrina in un’esperienza viva. Attraverso il ricordo (dhikr) e l’amore, l’ego del cercatore si fonde nella radiosità dell’Amato finché non rimane altro che Dio.
La storia del Sufi Volante incarna questa verità. Un derviscio, attraverso una profonda devozione, impara a volare. Ma mentre si libra, un pensiero attraversa la sua mente: “Cosa penserà la mia famiglia quando saprà che posso volare?” Immediatamente cade a terra. Il suo maestro gli dice: “Volavi bene, ma hai guardato indietro.” Nel momento in cui la consapevolezza di sé ritorna, la grazia scompare.
Nel Sufismo, questo è chiamato fanāʾ – l’annichilimento del sé in Dio. Ma questo annichilimento è seguito dal baqāʾ – la sussistenza in Dio. L’ego muore, e ciò che rimane è pura presenza.
Nell’Ebraismo cabalistico, il mistico cerca il bittul ha-yesh – la nullificazione del “qualcosa” dell’ego – per incontrare l’Ein Sof, l’Infinito. Lo tzaddik o persona giusta è colui che si svuota così completamente che la luce divina fluisce attraverso di lui senza ostacoli.
In questo linguaggio mistico, l’umiltà non è modestia, ma verità ontologica: solo Dio veramente “è”. Più l’ego si dissolve, più il divino diventa visibile nel mondo.
Il misticismo cristiano offre la sua versione nel concetto di kenosis – svuotamento di sé. San Paolo scrisse: “Vivo, ma non io, bensì Cristo vive in me.” Per Meister Eckhart, l’anima deve “diventare vuota di sé stessa” affinché Dio possa nascere al suo interno.
Nel cristianesimo contemplativo – la linea dei Padri del Deserto, della Nuvola dell’Ignoranza e dei mistici carmelitani – la preghiera non è chiedere cose, ma entrare nel silenzio dove l’ego tace e la presenza divina diventa tutto in tutto.
La moderna Wicca e il paganesimo contemporaneo, sebbene spesso liquidati come religioni “nuove”, portano la memoria antica dell’immanenza – l’idea che il divino sia dentro il mondo, non sopra o oltre di esso.
Nella Carica della Dea, uno dei testi centrali della Wicca, la Dea dichiara:
“Tutti gli atti d’amore e di piacere sono i miei rituali.”
Qui, la divinità non si trova fuggendo dal mondo, ma abbracciandolo pienamente e con riverenza. L’ego si dissolve attraverso l’estasi e l’incarnazione, non l’ascetismo.
Il cerchio rituale rappresenta la totalità dell’esistenza – senza gerarchie, senza separazione. Quando la Somma Sacerdotessa invoca “la Signora” o il “Signore”, non è una divinità esterna che discende, ma il risveglio del divino dentro e tra tutti i partecipanti.
Le feste stagionali – la Ruota dell’Anno – insegnano che morte e rinascita, oscurità e luce, sono un unico battito continuo. Il praticante impara a vedersi non come padrone della natura, ma come sua espressione. Nella danza estatica, in trance, in comunione con la terra e il cielo, il confine del sé si assottiglia finché non si sente: Io sono la foresta che respira; io sono la luna che si vede nell’acqua.
Il cammino della Wicca verso la trascendenza, quindi, è immanente piuttosto che verticale. L’ego non si dissolve verso l’alto nel cielo, ma verso l’esterno nella rete vivente della Terra.
Nel ventesimo secolo, la psicologia iniziò a riscoprire ciò che i mistici avevano sempre saputo. La gerarchia dei bisogni di Abraham Maslow divenne iconica per descrivere la motivazione umana – dalla sopravvivenza di base all’amore e alla stima, culminando nella realizzazione di sé.
Ma verso la fine della sua vita, Maslow revisionò il suo modello. Oltre la realizzazione di sé, riconobbe un altro stadio: la trascendenza di sé. Qui, il confine del sé si dissolve. Si diventa partecipanti di qualcosa di più grande – che sia il servizio, la creatività, la natura o l’unione mistica.
Le neuroscienze moderne confermano questo. Quando le persone entrano in meditazione profonda, preghiera estatica o stati di flusso, la rete in modalità predefinita – la parte del cervello che mantiene il nostro senso del sé – si quieta. Il correlato soggettivo è la dissoluzione dell’ego, accompagnata da pace, compassione e unità.
Ciò che Maslow, il Buddha e il Sufi osservarono tutti nelle loro lingue è che il più alto potenziale umano non risiede nella perfezione del sé, ma nella sua trascendenza.
Eppure, la civiltà che domina il mondo moderno si basa sull’assunzione opposta: che il sé non debba dissolversi, ma essere ingrandito all’infinito.
Il capitalismo, nella sua essenza psicologica, dipende dalla fame dell’ego. Prospera trasformando il desiderio spirituale in desiderio consumabile – convincendoci che il vuoto interiore può essere riempito con possedimenti, potere, status e stimolazione.
La pubblicità non vende prodotti; fabbrica il desiderio. Ci dice: Sei incompleto – ma questo ti completerà. Vende la salvezza attraverso le cose.
Il paradosso è tragico: l’insoddisfazione dell’ego, che la saggezza antica cercava di guarire attraverso la trascendenza, è diventata il motore dell’economia. Il vuoto non è più un problema spirituale – è un modello di business.
Così, ciò che un tempo era visto come la radice della sofferenza – desiderio, attaccamento, orgoglio – è stato ribattezzato virtù: ambizione, produttività, successo. Cercare l’unione o la quiete è, in questa visione del mondo, improduttivo – persino pericoloso, perché minaccia il macchinario del desiderio.
Il mantra del capitalismo non è “Sii fermo e conosci”, ma “Più grande, migliore, più veloce, di più.” Eppure, più nutriamo il sé, più affamato diventa. I centri commerciali e i feed digitali sono cattedrali di questo dio inquieto – l’idolo dell’ego – che consuma all’infinito, producendo nulla che soddisfi veramente.
La crisi della modernità non è solo economica o ecologica; è spirituale. Una civiltà organizzata attorno all’ego non può sostenersi, perché l’ego non conosce limiti. Divora la terra, gli altri e, infine, sé stesso.
Ma tutto intorno a noi ci sono segni di risveglio: persone che si rivolgono alla meditazione, alla comunità, alla consapevolezza ecologica e a nuove forme di solidarietà. Anche la scienza sta iniziando a riconoscere ciò che i saggi dichiararono molto tempo fa – che la salute della mente, del pianeta e dell’anima sono inseparabili.
Dissolvere l’ego non significa perdere sé stessi; significa tornare a casa – riscoprire l’unità che non è mai stata persa, solo dimenticata.
La prossima rivoluzione non sarà combattuta con armi o algoritmi, ma con la coscienza. Quando l’umanità ricorderà che non siamo i padroni del mondo, ma suoi momenti, il sacro si risveglierà – non nei templi o nelle dottrine, ma in ogni atto di consapevolezza, compassione e semplicità.